La recente intesa tra Leonardo e Rheinmetall non è solo uno dei più grandi accordi industriali del settore, perché segna l’avvio di un percorso europeo autonomo sotto il profilo militare.
Sembrano davvero lontani gli anni del lavoro in silenzio, costellati soprattutto dal 2015 al 2017 dalle tensioni sull’acquisto degli F35 e dalla pretesa di una parte della pubblica opinione e della politica di ridurre drasticamente le spese per la ricerca e l’industria militare.
In meno di un decennio la percezione del contributo della Difesa alla definizione un sistema di sicurezza e di capacità industriale si è modificato radicalmente. E questo cambio di paradigma è avvenuto ancora prima del conflitto ucraino.
L’adesione al Programma Tempest nel 2019, il primo atto dell’allora ministro della Difesa Lorenzo Guerini, oggi presidente del Copasir, ha confermato infatti l’affidabilità dell’industria italiana della Difesa come partner strategico della Gran Bretagna, e ha generato aspettative positive sulle quali si è innestata successivamente la presenza dell’industria giapponese, dando vita al GCAP.
L’accelerazione impressa dal ministro Crosetto a tutti i progetti industriali, si è poi tradotta in un segnale chiaro alla leadership tecnologica francese.
Entro il 2030 i Paesi membri dovranno acquisire congiuntamente almeno il 40% delle forniture militari all’interno dell’Unione Europea. Evitare di acquistare armamenti da produttori extra Ue come Stati Uniti, Regno Unito, Israele o Turchia significa potenziare la ricerca e l’innovazione tecnologica europea, immaginando anche degli strumenti finanziari adeguati per favorire un sistema unico di difesa.
L’avvio di un percorso europeo autonomo sotto il profilo militare sarebbe già dovuto cominciare almeno dal 2018, quando durante il vertice annuale dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles l’allora presidente americano Trump chiese a tutti i Paesi Nato di aumentare i loro contributi, minacciando l’uscita degli Stati Uniti. In quel momento gli Usa versavano alla Nato oltre il 3,5% del Pil mentre, nonostante l’impegno assunto nel 2006 a destinare il 2%, i Paesi europei tranne Grecia, Regno Unito ed Estonia, erano lontani dal target.
L’invasione dell’Ucraina ha rafforzato l’Alleanza, allargandola ad altri Paesi, intimoriti dall’atteggiamento espansionistico di Mosca. Sono stati soprattutto i Paesi dell’ex Patto di Varsavia e vicini al confine orientale ad avere aumentato i loro contributi in modo significativo. La Polonia, con il 3,9% del Pil, ha superato la percentuale degli Usa, ma anche altri Paesi non sono stati da meno, come l’Estonia, 2,73%, la Lituania, 2,54%, la Romania, 2,44%, l’Ungheria, 2,43% e la Lettonia, 2,27%. La guerra in Ucraina ha fatto emergere anche i limiti dell’Europa, che ha maturato e avviato un approccio diverso su alcuni temi di difesa e sicurezza.
A prescindere da chi vincerà le elezioni negli Stati Uniti l’ombrello americano non potrà continuare a proteggere per sempre l’alleato europeo. Per competere a livello globale l’Europa dovrà aprire una fase nuova di investimenti sull’innovazione e sulla ricerca, non solo nel settore della difesa.