Mentre Stati Uniti e Cina competono a livello globale con multinazionali di enormi dimensioni (si veda a tal proposito la parte del Rapporto Draghi dedicata agli investimenti in private equity sulle start-up), l’Europa che si ostina a promuovere la decarbonizzazione con le batterie cinesi, se vuole davvero salvare la manifattura deve costruire le sue strategie attraverso l’analisi dei dati e non con le lenti dell’ideologia ambientalista.
Tra il 2016 e il 2023, infatti, l’export della Cina è aumentato a valori correnti in euro del 52%; quello degli Stati Uniti del 38%, mentre quello dell’Europa a 27 verso i mercati extra europei del 36%, meno degli USA, che soprattutto a causa della delocalizzazione in Asia hanno ridotto le loro quote di esportazione.
Solo l’export extra UE dell’Italia (+45%), tra i Paesi europei, è cresciuto a ritmi elevati, secondi solo a quelli cinesi, ben sette punti più degli USA, quasi dieci più della UE a 27, addirittura più del doppio della Francia (22%) e della Germania (21%).
Questi dati sono la dimostrazione evidente della crisi del modello industriale tedesco, che attraverso l’euro immaginava di aumentare la propria quota di esportazione a livello globale, ma che a conti fatti si è affidato a due variabili che si sono rivelate micidiali nella loro fallibilità: il supporto dell’energia a basso prezzo dalla Russia e la crescita inarrestabile della Cina.
L’export delle imprese italiane, invece, è cresciuto ad un tasso molto superiore alla media europea, considerazione che vale per i prodotti alimentari (Italia + 67%, UE27 +45%), per i prodotti chimici e farmaceutici (+ 116% contro +58%), per la meccanica e i mezzi di trasporto (+35% contro +28%), e per l’abbigliamento (+30% contro +28%). Il Paese più competitivo in Europa nel commercio internazionale, oggi rischia di essere l’economia manifatturiera più penalizzata dalle regole rigide sulla transizione energetica della UE.
E la valutazione degli effetti del Grean Deal sull’economia non può non trovare spazio anche nel dibattito sulla Legge Finanziaria. I dati del Def dimostrano che l’obiettivo del 3% è perfettamente raggiungibile. Se il tasso di crescita nominale del Pil, sarà nel 2025 pari al 3,4%, come ipotizzato dal Def, le entrate fiscali potranno aumentare di un “valore medio prossimo all’1,5%”. L’incognita che resta è come far fronte alle maggiori richieste di interventi. Le previsioni del Def sono a legislazione invariata perché considerano gli oneri che derivano dalle leggi esistenti. Nella programmazione di bilancio, si valutano invece i nuovi obiettivi che si vogliono raggiungere, in termini di spesa e di entrata. Il Dipartimento delle Finanze del Mef, a luglio 2024 ha indicato in oltre 22 miliardi la crescita delle entrate tributarie e contributive rispetto ai primi sette mesi dell’anno precedente.
In attesa dei dati sul concordato preventivo per le partite Iva, dal fisco possono derivare buone notizie, destinate a fornire le coperture indispensabili ai possibili nuovi impegni del Governo, soprattutto se le maggiori entrate dovessero continuare fino alla fine del 2024.