È l’energia la cartina al tornasole per comprendere la rivoluzione del senso comune di Trump. Il fattore energia, infatti, costituisce il tassello più importante non solo per sostenere lo sviluppo industriale degli Stati Uniti, ma diventa decisivo come strumento di negoziazione nell’attuale ricomposizione dei precari equilibri geopolitici.
E il presidente degli Stati Uniti nella fragile quanto conflittuale dicotomia tra la crescita economica e la conservazione dell’ambiente, sceglie di schierarsi decisamente a favore dello sviluppo.
E lo fa attraverso la narrativa dell’emergenza, utilizzata per promuovere atti ed ordini esecutivi che giustificano interventi rapidi e decisivi, come quelli approvati ieri, per rimuovere quello che viene percepito dagli Americani come un eccesso di regolamentazione nel settore energetico.
La Cina, del resto, oggi è il primo Paese al mondo per importazione di petrolio; gli Usa il primo Paese esportatore globale di gas liquefatto.
Durante la presidenza Biden, gli USA hanno aumentato l’estrazione di greggio, ma anche puntato con decisione sulle fonti rinnovabili, grazie ai generosi incentivi introdotti con l’Inflation Reduction Act.
Con l’ordine esecutivo firmato ieri, Trump ha invertito questo processo e tornato a puntare con decisione sulle fonti fossili, annullando il divieto di future trivellazioni offshore di petrolio e gas introdotto da Biden.
Un piano perfettamente riassunto dallo slogan drill, baby, drill, ripetuto in continuazione da Trump durante l’ultima campagna elettorale e nel discorso di insediamento.
Con un altro ordine esecutivo Trump ha anche autorizzato l’estrazione di petrolio e gas anche nell’Alaska, che contiene grandi quantità di combustibili ma che Biden aveva cercato di preservare dagli interessi dell’industria Oil & Gas.
Nel suo primo giorno nello Studio Ovale, Trump ha poi ritirato nuovamente gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, il documento firmato alla Conferenza Onu sul clima del 2015 che impegna i governi a contenere l’aumento della temperatura media mondiale al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali.
Trump ha ribadito al mondo che l’autonomia energetica è una priorità della politica estera e della politica industriale statunitense.
La competitività di un sistema industriale, affermava allora Enrico Mattei, doveva essere costruita intorno all’autonomia energetica, assioma che oggi è funzionale alla celebrazione trumpiana del nuovo dominio statunitense.
Con la Russia in difficoltà a causa della guerra estenuante con l’Ucraina e il controllo delle posizioni in Africa dall’avanzata della Turchia, la Cina che chiede sempre di più petrolio per mantenere livelli di produzione elevati, l’Europa alle prese con la ridefinizione del Green Deal per arrestare la pericolosa deindustrializzazione, il futuro della geopolitica dell’energia passa ancora dagli Stati Uniti.