Partiamo da un assunto incontrovertibile, in Italia la produzione automobilistica è praticamente ferma al palo. E non si tratta di elettrico, ma in generale del ruolo che la manifattura industriale dell’automotive ha svolto per lo sviluppo e la crescita del nostro paese, e che, numeri alla mano, non potrà più continuare a svolgere. Almeno a queste condizioni.
Alla fine dello scorso anno, infatti, la produzione di autoveicoli si è fermata a 473.194 unità, un terzo della produzione spagnola, sette volte inferiore a quella tedesca.
Era evidente, quindi, che numeri così bassi avrebbero messo a rischio la tenuta di un intero settore e del suo indotto, inevitabilmente tentati dalla delocalizzazione facile nei Paesi a più alta intensità di produzione. Tema, questo, che seppure non esplicitato, ha fatto da cornice all’audizione parlamentare dell’Ad di Stellantis Carlo Tavares.
L’audizione ha mostrato ancora una volta l’attuale debolezza della politica, ed ha evidenziato la pervasività di un certo modello di capitalismo che ha smesso di produrre e cominciato ad inseguire i servizi, continuando a chiedere soldi e risorse agli stati e ai governi, diventati sempre più impotenti.
Tavares, che non è certamente Marchionne, ieri è sembrato un gigante. E se al manager italiano capace di rilanciare Fiat e trasformarla con Chrysler in un gruppo globale, l’Italia ha riservato solo critiche strumentali, ieri Tavares ha avuto gioco facile ad imporre il suo mantra.
L’aumento dei costi di produzione dell’elettrico pari al 40%, ha detto il manager portoghese, significa accelerare sulla politica degli incentivi per consentire a tutti di acquistare una autovettura, come se l’elettrico fosse l’unica soluzione possibile.
Tavares, poi, è stato molto chiaro sul rispetto dei tempi della gigafactory di Termoli. Se si venderanno le automobili grazie agli incentivi per l’elettrico la nuova fabbrica si farà, altrimenti il progetto sarà messo per sempre da parte.
La scomparsa di Marchionne ha di fatto accelerato la fusione tra Fca e Peugeot, che in realtà è la storia della cessione del gruppo italoamericano ai francesi.
Non a caso il dividendo straordinario di 3,9 miliardi riscosso dalla proprietà italiana e garantito da una fideiussione pubblica di 6,3 miliardi favorita dal governo Conte 2, ha rappresentato la buona uscita per rinunciare all’amministrazione del gruppo automobilistico.
Sembrano davvero lontano i tempi del primo Marchionne, quando alla fine del 2011, fece uscire la Fiat da Confindustria. Quella decisione nasceva dall’esigenza di sterilizzare il processo produttivo gravato da un assenteismo anomalo, e da una contrattazione collettiva che stava imbrigliando l’azienda.
L’obiettivo del manager abruzzese era quello di negoziare direttamente contratti integrativi aziendali, che avessero al centro la produttività in cambio di migliori trattamenti economici, con la prospettiva ambiziosa di rilanciare la produzione italiana, nonostante l’atteggiamento ostruzionistico della Fiom Cgil di Landini.
Ma di italiano in Stellantis oggi è rimasto davvero poco o nulla.