Sul Decreto Dignità il mio intervento su Il Foglio.
Il Decreto Dignità nasce con una concezione novecentesca del lavoro. In Italia il 15% dei contratti è a termine e questa cifra è in linea con la percentuale europea. La sicurezza psicologica e sociale delle persone tutelata sul lavoro è un bene di valore inestimabile, ma non può essere l’unico requisito che va individuato quando si discute di lavoro. Nel pubblico, ad esempio, si è arrivati al paradosso che l’eccesso di protezione ha mortificato in alcuni casi la dignità del lavoro, perché la prestazione non è sempre condizionata dalla competenza.
Ben vengano gli strumenti che proteggono soprattutto i giovani dagli abusi, ma cosa diversa è sostenere (come di fatto accade nel Decreto Dignità licenziato dal ministro Di Maio) che il lavoro è dignitoso solo quando è stabile. Ma la stabilità del lavoro non può essere creata per Decreto.
Il mercato del lavoro che privilegia la dignità, invece, è quello che valorizza le competenze e la meritocrazia, che investe sulla formazione, che consente a chi perde lavoro di essere sostenuto con strumenti di politica attiva che consentono al lavoratore di essere ricollocato nel breve tempo possibile.
Il mercato del lavoro “dignitoso”, in un contesto nel quale la mobilità dei talenti è altissima, è quella che dà valore all’educazione come fattore di sviluppo e di crescita individuale e collettiva. Il Decreto Dignità sarebbe dovuto partire da queste premesse, senza demonizzare il sistema del lavoro, ma valorizzando al contrario l’unico momento che rende ogni essere umano dignitoso: l’Educazione.
Se non si riparte dalla formazione difficilmente una persona potrà avere un percorso professionale dignitoso.
Alcuni mesi fa l’Eurostat ha diffuso un dato tragico. Il 26,1% dei 25-34enni – target nel quale l’Italia ha il triste primato dei disoccupati in Europa – conseguirà al massimo la licenza media, ha affermato l’Istituto europeo di statistica. Un italiano su quattro non arriverà mai alla laurea. E difficilmente lavorerà in modo continuativo, aggiungiamo noi, perché scarsi livelli di istruzione e di qualificazione segnano una elevata difficoltà a trovare un lavoro stabile, condizione che nel lungo periodo costituisce le premesse per la disoccupazione e l’espulsione dal mercato del lavoro.
Questi numeri confermano il sostanziale fallimento dell’impalcatura della Riforma Berlinguer, il cui scopo era quello di aumentare il numero dei laureati, e allontanano l’Italia dagli obiettivi della strategia di Europa 2020. Entro tre anni, infatti, gli adulti in possesso del titolo terziario dovrebbero essere almeno il 40%.
Gli obiettivi della Strategia di Europa 2020, però, erano stati concepiti prima del decennio di crisi, e soprattutto senza ipotizzare quale sarebbe stata l’accelerazione al cambiamento e alla innovazione di Industria 4.0, che altri Paesi stanno utilizzando per ridefinire l’offerta formativa (Inghilterra) e la riorganizzazione dei processi industriali (Germania).
Nel 2016 le imprese tedesche hanno aumentato gli investimenti in robotica del 36% rispetto all’anno precedente. Eppure la disoccupazione giovanile è rimasta su livelli fisiologici, non superiore al 6%.
Il lavoro, insomma, non lo tolgono i robot e non diventa dignitoso per Decreto, a meno che non si tratti di impieghi ripetitivi e facilmente riproducibili anche dagli algoritmi e da chi ha bassa scolarizzazione.